Il processo e la croce

Mc 15,1-47

[1]Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. [2]Allora Pilato incominciò a interrogarlo: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». [3]I sommi sacerdoti intanto gli muovevano molte accuse. [4]Pilato lo interrogò di nuovo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». [5]Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato. [6]Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. [7]Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. [8]La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva. [9]Allora Pilato rispose loro: «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?». [10]Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. [11]Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba. [12]Pilato replicò: «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». [13]Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». [14]Ma Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Allora essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». [15]E Pilato, volendo dar soddisfazione alla folla, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. [16]Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. [17]Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. [18]Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». [19]E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui. [20]Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo. [21]Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. [22]Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio, [23]e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. [24]Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. [25]Era l’ora terza quando lo crocifissero. [26]E l'iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. [27]Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. [28]. [29]I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, [30]salva te stesso scendendo dalla croce!». [31]Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! [32]Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

[33]Venuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra, fino all’ora nona. [34]All’ora nona Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? [35]Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!». [36]Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce». [37]Ma Gesù, dando un forte grido, morì.

[38]Il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso. [39]Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo morire in quel modo, disse: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!».

[40]C'erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, [41]che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

[42]Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, [43]Giuseppe d'Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. [44]Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. [45]Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. [46]Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l'entrata del sepolcro. [47]Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.

Il capitolo 15 del vangelo di Marco è dedicato interamente al processo di Gesù, alla sua condanna, crocifissione, morte e sepoltura. Siamo cioè di fronte alla parte più drammatica del testo evangelico e nello stesso tempo alla più importante insieme al capitolo 16.

In questi racconti troviamo il cuore stesso dell'annuncio di Gesù e quindi è necessario leggere questi brani con grande attenzione.

Proprio per questa sua importanza seguiremo il testo versetto per versetto.


vv.1-5: nella prima parte del racconto vediamo i sommi sacerdoti e i membri del sinedrio che, dopo aver giudicato Gesù colpevole di bestemmia, lo conducono da Pilato. Infatti, essendo la Giudea occupata dai Romani e quindi governata da Roma, era impossibile per gli ebrei eseguire una condanna a morte; era necessario che questa condanna fosse pronunciata dal governatore romano. Pilato fu governatore della Giudea dal 26 al 36 d.C.

Davanti a Pilato l'accusa nei confronti di Gesù cambia: egli non è più accusato di essersi definito Figlio di Dio, ma re dei Giudei. Al governatore romano, infatti, non importava nulla delle questioni religiose nelle quali non voleva immischiarsi e, certamente, non avrebbe mai pronunciato una condanna a morte per tali motivi. L'unica possibilità di far condannare Gesù consisteva nel convincere Pilato che quest'uomo rappresentava un pericolo per il potere politico di Roma. Ecco allora che l'accusa viene trasferita dalla sfera religiosa (Figlio di Dio) a quella politica (re dei Giudei) e in questo modo è possibile chiedere l'intervento del governatore.

Di fronte alla domanda di Pilato “Sei tu il re dei Giudei”, Gesù risponde “tu lo dici” e ciò che sorprende è che queste siano le sue uniche parole secondo la ricostruzione del processo fatta dall'evangelista Marco. Il motivo del silenzio di Gesù sembra essere abbastanza chiaro: ogni parola sarebbe stata usata contro di lui ed in nessun modo si sarebbero ascoltate le sue ragioni. I sacerdoti e il sinedrio non erano certo disposti a cambiare idea rispetto a lui ed al suo insegnamento e la loro condanna era già stata pronunciata.


vv.6-7: l'evangelista ci presenta un'usanza di Pilato che consisteva nel liberare un prigioniero in occasione della festa della Pasqua. Questa usanza non trova riscontro in altri documenti romani, per cui non possiamo essere certi della sua attendibilità storica, anche se dobbiamo constatare che tutti e tre i vangeli sinottici la riportano.

vv.8-15: la condanna di Gesù avviene in un contesto di grande confusione, nel quale la folla richiede con insistenza la liberazione di Barabba, che ci viene presentato come un rivoluzionario, probabilmente membro del gruppo degli zelòti che cercavano, attraverso la lotta violenta, di liberare Israele dall'occupazione romana. Anche in questo caso la scena è costruita in modo tale che appaia chiara la situazione di abbandono nella quale si trova Gesù. La condanna alla quale egli è destinato è la crocifissione, ossia la pena più infamante praticata nell'impero romano che, proprio per la sua atrocità, era riservata agli schiavi e ai peggiori criminali. Pilato prima di condannare Gesù tenta una sua minima difesa, ma vedendo che non ottiene nulla, non si preoccupa molto di lui e pronuncia la sentenza di morte.

Nel cortile del Pretorio, prima di essere condotto al luogo della crocifissione, Gesù viene fatto flagellare. Questa tortura poteva essere una pena inflitta da sola, ma spesso precedeva la stessa condanna a morte per crocifissione. Il condannato alla flagellazione subiva i colpi del flagello chinato su una colonna dell'altezza di circa un metro (gli ebrei avevano stabilito un massimo di trentanove colpi, ma i romani non conoscevano questo limite). Il flagello aveva un'impugnatura di legno con cinghie di cuoio alle cui estremità erano legati pezzi di osso o sfere di ferro. Ogni colpo, dato sulla schiena o sulle gambe, procurava ferite molto profonde. Questa tortura poteva anche uccidere il condannato o lasciarlo perennemente invalido.


vv.16-20: al termine della tortura della flagellazione i soldati e le guardie si divertono con Gesù prendendosi gioco di lui e percuotendolo. E' importante notare come, in questo passo, risalti in modo ancora più evidente l'assoluta disumanità dei protagonisti. Allora, come oggi, spesso la cattiveria dell'uomo si scatena contro chi non può difendersi. Il prigioniero è nelle mani dei suoi carcerieri e non può difendersi. Siamo di fronte all'esatto opposto di ciò che stava alla base della predicazione di Gesù: l'amore e la cura della vita dell'uomo. Qui l'uomo è offeso e brutalizzato, per lui non si ha nessun rispetto e questo, nel vangelo, può essere definito il trionfo del male, la negazione dell'umanità dell'uomo.

Esempi di flagelli. Anche questi strumenti di tortura ci testimoniano fin dove può arrivare la crudeltà dell'uomo

v.21: a questo punto inizia la scena drammatica della crocifissione. Essa incomincia con il cammino che porterà Gesù fino al Golgòta, una piccola collinetta fuori delle mura della città.

Gesù, come tutti i condannati alla crocifissione, doveva portare sulle spalle il patibulum, ossia il palo orizzontale della croce al quale verrà poi inchiodato e che sarà sollevato sul palo verticale già piantato sul luogo della crocifissione.

Ma Gesù non riesce a portare questo peso a causa delle ferite della flagellazione. Per questa ragione i soldati costringono un uomo a portare la croce al suo posto. Non fatevi ingannare da questo gesto: non è un gesto di pietà. I soldati dovevano eseguire l'ordine di far morire il condannato sulla croce e quindi non potevano rischiare che morisse durante il tragitto; loro per primi avrebbero subito una pesante punizione. Obbligano così un passante a prendere il fardello. Questo passante si chiama Simone, originario di Cirene una cittadina sulla costa della Libia. Di lui si dice che è padre di Alessandro e Rufo. Questo particolare è piuttosto sorprendente: infatti cosa può interessare al lettore che egli sia il padre di Alessandro e Rufo? E poi, chi sono Alessandro e Rufo?

Noi non lo sappiamo, ma forse lo sapevano i primi destinatari di questo vangelo, ossia i membri della primitiva comunità cristiana di Roma, nella quale è nato il vangelo di Marco. Si può pertanto formulare un'ipotesi, che però non può essere dimostrata definitivamente: Alessandro e Rufo, forse, erano conosciuti dai primi cristiani e quindi anche loro erano cristiani. San Paolo, nella sua lettera ai Romani, parla di un certo Rufo (Rom 16,13), ma questo dato non è sufficiente per affermare con sicurezza che si tratti della stessa persona. Se fosse così, dovremmo dire che l'esperienza di portare la croce di Gesù, impressionò a tal punto Simone, da suscitare in lui e nei suoi figli il desiderio di diventare cristiani.


vv.22-23: il racconto non si sofferma molto sui particolari del tragitto, che peraltro non doveva essere stato molto lungo. Ci troviamo ora sul Golgòta e a Gesù, come a tutti i condannati alla crocifissione, viene offerto del vino mescolato con mirra, una bevanda inebriante che preparavano le donne, forse le parenti dei condannati, che aiutava il crocifisso a sopportare i dolori della croce. Gesù non volle questa bevanda, probabilmente per il desiderio di rimanere cosciente sino alla fine. Non possiamo, anche in questa occasione, non notare il coraggio di quest'uomo che affronta con grande decisione la sua fine, nonostante il dolore fisico che sta già provando a causa della flagellazione.


v.24: la crocifissione era una pratica barbara che i Romani avevano acquisito dai Cartaginesi. Essa costringeva il condannato ad una morte lenta e dolorosa e veniva praticata come deterrente contro le frequenti ribellioni al dominio di Roma, o per punire gravi delitti. Era così terribile che i cittadini romani condannati a morte non potevano essere crocifissi.

Al condannato venivano inchiodati i polsi al patibulum (o legati con corde in mancanza di chiodi) e i piedi al palo verticale. I piedi poggiavano su una piccola pedana. I crocifissi morivano spesso per asfissia, perché, a causa dei lancinanti dolori e della devastazione fisica, si lasciavano andare. In questo modo le braccia tirate comprimevano la cassa toracica fino al soffocamento. La morte sopraggiungeva dopo molte ore di questa tortura. Ai condannati che rimanevano in vita troppo a lungo i soldati rompevano le gambe con delle grosse mazze.

Tutto questo, nella storia di Roma, avvenne migliaia di volte (pensiamo agli schiavi, circa seimila, condannati al termine della rivolta contro Roma nel 71 a.C. condotta da Spartaco: furono crocifissi sulla via Appia tra Capua e Roma!) e, come possiamo notare, i “barbari” non erano solo le popolazioni al di fuori dei confini dell'impero!

I soldati, che avevano eseguito la crocifissione, erano soliti dividersi le vesti del condannato.


vv.25-27: Gesù fu crocifisso all'ora terza, ossia alle nove del mattino. Sopra il suo capo era stato collocato, come era abitudine, il cartello con il motivo della condanna: “il re dei Giudei”. In molte rappresentazioni del crocifisso, si nota un cartello con quattro lettere “INRI”. Queste lettere indicano le iniziali di quattro parole latine: “Iesus Nazareni Rex Iudeorum”, che significano “Gesù Nazareno re dei Giudei”.

Altri due uomini furono crocifissi con Gesù.


vv.28-32: in questa parte del racconto Marco riporta le reazioni di coloro che erano sotto la croce. Nelle loro parole troviamo un elemento comune: oltre ad essere delle volgari provocazioni, esse esprimono la pretesa di un gesto potente per poter credere alle parole di Gesù. I passanti, i capi dei sacerdoti e gli scribi affermano in modo chiaro, il loro modo di pensare a Dio: se Gesù è quello che dice di essere, ossia il Figlio di Dio, certamente ribalterà con un miracolo la situazione. Se non succederà nulla allora la sua condanna sarà stata certamente giusta. Essi si aspettano un gesto potente, perché credono che la caratteristica principale di Dio sia la sua Onnipotenza, intesa come la sua capacità di compiere qualsiasi cosa. Non possono non tornare alla mente le parole del diavolo nel brano delle tentazioni presente nel vangelo di Matteo (Mt 4,1-11).

E' chiaro che, per Marco, Gesù sta ora subendo la sua più terribile tentazione: mostrare che Dio è il Potente, che può sottomettere gli uomini.

vv.33-41: incomincia ora la parte fondamentale del vangelo di Marco che si concluderà, come vedremo, al v.8 del capitolo 16. In queste righe noi troviamo il cuore del vangelo e, certamente, anche il cuore della fede cristiana. Cerchiamo di capire perché.

La prima immagine che ci viene presentata riguarda l'apparire delle tenebre su tutta la terra per la durata di tre ore. Non siamo di fronte ad un'eclissi, ma ad un'immagine di straordinaria forza simbolica: le tenebre, simbolo del male, dominano su tutta la terra per tre ore, ossia, completamente. Il male sta dominando incontrastato in questa scena, perché nessuno dei presenti crede nella possibilità dell'avvento del Regno di Dio, che si manifesta esplicitamente nella cura dell'uomo. Qui c'è solo spazio per l'odio, per la violenza e per l'insulto. Il male, scelto liberamente dall'uomo, sta distruggendo Gesù e, nello stesso tempo, sta annientando il sogno di Dio sulla storia.

E' in questo momento di sofferenza e di solitudine estrema, che Gesù lancia il suo straziante grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù, nel momento culminante della sua agonia, si sente abbandonato anche da Dio e qui appare in tutta la sua umanità. Le parole pronunciate da Gesù sono prese da un salmo, il salmo 22. I salmi sono preghiere, scritte in forma poetica, presenti nella bibbia. Questo salmo è la preghiera di un uomo sofferente e perseguitato che si rivolge a Dio nel suo dolore. Tuttavia non vi troviamo solo il lamento dell'uomo abbandonato a se stesso nell'ora del dolore, ma anche la grande fiducia che il sofferente ha in Dio. Gesù, pregando con le parole del salmo, esprime il suo totale affidamento al Padre anche nell'ora dell'oscurità e dell'abbandono.

E' in queste parole che si può capire profondamente la persona di Gesù: egli non ha vissuto questo momento come un “super uomo” che già conosce il suo futuro di gloria (la resurrezione), ma come tutti gli uomini straziati dal dolore che, nonostante questo, hanno ancora il coraggio di testimoniare la loro fede!

Questo grido viene frainteso. I presenti credono che Gesù stia invocando il profeta Elia che, secondo la tradizione, sarebbe intervenuto a salvare il sofferente condannato in modo ingiusto. Così assistiamo all'ultima, terribile cattiveria nei confronti di Gesù. Uno dei presenti corre ad inzuppare una spugna con la bevanda che i soldati romani usavano per dissetarsi: aceto diluito con acqua. Quest’uomo vuole prolungare le sofferenze di Gesù, facendolo rinvenire. Non può finire proprio adesso il divertimento! L'ultimo scherno sta proprio nel dare a Gesù la possibilità di vedere che il suo grido rimane inascoltato: nessuno verrà a salvarlo, lui è solo.

Come vedi, le tenebre hanno veramente coperto la terra, disumanizzando l'uomo!

“Ma Gesù, dando un forte gridò, morì”. E' questa una frase di importanza fondamentale. Tutti si aspettano un gesto potente che confermi la pretesa di Gesù di essere il Figlio di Dio. La prova della verità su di lui è la potenza che sarà in grado di manifestare. Credo che il “ma” che introduce la frase, stravolga secoli di religiosità: secondo i cristiani Dio non si manifesta nella potenza, ma nella sua capacità di soffrire. Da qui in poi, l'uomo non dovrà più fare sacrifici in onore di un dio e, tanto meno, dovrà offrire doni per placare l'ira della divinità perché, secondo l'evangelista, è Dio che ha dato se stesso in sacrificio per gli uomini.

Ma che significa questo?

Per ora teniamo aperta questa domanda alla quale in seguito, forse, daremo una risposta.

I vv. 38-39 sono il centro di questa sezione e l'apice del vangelo di Marco. Al momento della morte di Gesù, l'evangelista attraverso una splendida immagine simbolica, mostra in modo esplicito la fede della prima comunità cristiana. Cerchiamo di capire perché.

Il testo dice: “Il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto fino in basso”. Il tempio di cui si sta parlando è quello di Gerusalemme. Al suo esterno c'era un grande cortile in cui potevano entrare tutti. Più all'interno, superata una balaustra, potevano accedere solo gli ebrei. In un primo settore del tempio entravano le donne, di seguito sempre più all'interno gli uomini, poi i sacerdoti ed infine si accedeva alla parte più sacra del tempio, il “Santo dei Santi”, il luogo della presenza di Dio, nel quale, anticamente, erano custodite le tavole dell'alleanza. Solo il sommo sacerdote vi era ammesso una volta all'anno al termine del giorno della purificazione nel quale tutto il popolo chiedeva perdono a Dio per i propri peccati, lo Yom kippur. In questo giorno, nel Santo dei Santi, il sommo sacerdote pronunciava il nome di Dio (JHWH). Questa parte del tempio era preclusa alla vista del popolo da una tenda che sottolineava il mistero trascendente di Dio. E' di questa tenda che parla l'evangelista.

Ora l'immagine dice che questa tenda si squarciò. Il verbo “squarciare” l'abbiamo già incontrato.

E' lo stesso verbo usato da Marco nel brano del battesimo di Gesù (Mc 1,9-11). In quel brano indicava il rivelarsi di Dio Padre a Gesù.

Ecco, allora, che il senso di questa immagine appare nella sua ricchezza: nel momento della morte di Gesù in croce Dio Padre si rivela, si fa conoscere agli uomini, si mostra per quello che è: non un Dio potente che si impone agli uomini con gesti straordinari, ma un Dio Onnipotente che mostra la sua potenza nella sua infinita capacità di amare, nella sua infinita capacità di compassione, ossia di condivisione della sofferenza dell'uomo. Dio, secondo l'evangelista Marco, non può tutto, ma può amare in modo infinito, fino al sacrificio di sé. Solo comprendendo questa logica di cura e di condivisione, si può, secondo Marco, conoscere Dio.

E' quindi ”logico” che nel versetto successivo, egli testimoni la conversione del centurione romano che: “vistolo morire in quel modo disse: quest'uomo era veramente il Figlio di Dio”. Per la prima volta in tutto il vangelo, un essere umano dice di Gesù che è il Figlio di Dio e questo avviene proprio nel momento della sua morte.

Se ti ricordi, in questi ultimi capitoli nessun uomo ha fatto un gesto di cura nei confronti di Gesù. Ma proprio nel momento della sua morte avviene qualcosa di nuovo: un uomo vede in Gesù Dio stesso e lo vede proprio quando sembra definitivamente sconfitto dal male, dall'odio e dalla violenza.

E' questa la conclusione del percorso del vangelo di Marco: nell'amore che si dona, nella cura incondizionata, è possibile incontrare Dio, proprio quando Dio muore.

Si può quindi affermare che l'evangelista suggerisca questa riflessione: è impossibile trovare Dio nei gesti potenti e straordinari, piuttosto Dio va cercato ogniqualvolta si incontra la rivelazione dell'amore.

Ad assistere alla morte di Gesù sono presenti molte donne. Gli uomini lo avevano già abbandonato da tempo. Le donne sono lì, coraggiose, noncuranti del pericolo che corrono. Tra queste sono presenti alcune (Maria Maddalena, Maria di Giacomo, Salome) che avevano seguito Gesù fin dall'inizio della sua predicazione in Galilea. Esse hanno compreso l'insegnamento di Gesù e, per quanto possono, gli stanno vicine mostrando il loro amore e la loro cura per lui.

vv.42-47: il racconto della morte di Gesù si conclude con un particolare estremamente interessante. Un uomo di nome Giuseppe si reca da Pilato per chiedergli il permesso di seppellire Gesù. I crocifissi, infatti, erano proprietà di Roma e venivano lasciati per giorni sulla croce come monito per tutti. Alla fine venivano gettati in fosse comuni. Ma quest'uomo, membro del sinedrio, ossia dell'organo politico-religioso che ha deciso di uccidere Gesù, si fa coraggio e va da Pilato. Il governatore si meraviglia del fatto che Gesù sia già morto (erano passate “solo” sei ore!), ma alla fine concede il corpo di Gesù a Giuseppe. In queste righe c'è un elemento importante: un altro uomo si prende cura di Gesù. Perché questo cambiamento?

Marco ci offre un prezioso indizio: Giuseppe era un uomo che attendeva il regno di Dio. Anche lui credeva nella possibilità di qualcosa di nuovo per il mondo, anche lui credeva che l'amore potesse costituire l'alternativa per un mondo più umano, anche lui credeva nell'amore di Dio. Questa sua fede si rianima dopo aver visto la morte di Gesù. Questa morte che sembra la sconfitta dell'amore e il trionfo del male, sta già portando i suoi frutti. Giuseppe abbandona le sue sicurezze e, facendosi coraggio, decide che la cura verso quest'uomo è, in questo momento, più importante dei suoi timori. Prende il corpo di Gesù e lo seppellisce in un sepolcro di sua proprietà, mentre le donne (ancora loro!) stanno a guardare dove il corpo del maestro viene deposto.

A questo punto il silenzio cala su questa drammatica scena. Gesù è nel sepolcro, la sua vita è finita, il male ha vinto e le tenebre ricoprono la terra.

L'evangelista, in questo silenzio, pone una domanda al lettore: se Gesù è morto, allora anche Dio è morto e quindi, che senso ha la storia dell'umanità senza Dio?